Libertà di opinione e tutela della reputazione: quali limiti al diritto di critica del dipendente?

Last Updated on November 26, 2019

Di:  Avv. Wanda Falco

Libertà di opinione e tutela della reputazione: quali limiti al diritto di critica del dipendente?

Il diritto di critica del lavoratore trova il proprio fondamento nell’art. 21 Cost. che riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero purché ciò avvenga secondo modalità non contrarie al buon costume e nel rispetto di altri valori di rango costituzionale quali il decoro e la dignità della persona. 

Nell’ambito del rapporto di lavoro il diritto di critica è sancito dall’art. 1 della L. 300/70 secondo cui tutti i lavoratori hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sul luogo di lavoro. Ciò significa che i dipendenti possono assumere anche posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro.

Tale diritto, tuttavia, incontra alcuni limiti quali il diritto del datore di lavoro alla tutela del proprio onore e della propria reputazione nonché il limite costituito dall’art. 2105 c.c. che sancisce l’obbligo di fedeltà del dipendente. Tale obbligo ha un contenuto più ampio di quello espressamente previsto dalla norma dovendo essere letto alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede che condizionano anche le modalità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sia all’interno che all’esterno del luogo di lavoro (Cass. 1379/2019).

Vediamo ora nel dettaglio quali sono i limiti al diritto di critica del dipendente e alcuni casi pratici particolarmente interessanti.

I limiti al diritto di critica del dipendente

Come anticipato, qualsiasi diritto costituzionalmente garantito non va mai inteso in senso assoluto, ma va sempre contemperato con altri diritti di rango costituzionale altrettanto meritevoli di tutela. 

Anche il diritto di critica (espressione della libertà di manifestazione del proprio pensiero) va, dunque, bilanciato con il diritto all’onore e alla reputazione del soggetto destinatario delle critiche. I criteri da rispettare per garantire un equo bilanciamento dei diritti in questione sono stati elaborati dalla giurisprudenza in materia di critica e cronaca giornalistica e, poi, trasferiti nel contesto giuslavoristico.

Si tratta dei principi di:

– continenza sostanziale, in virtù del quale i fatti sui quali la critica si fonda devono corrispondere a verità;

– continenza formale, in virtù del quale le modalità di espressione delle opinioni o dei fatti oggetto di critica devono avvenire in maniera moderata e misurata; le modalità espressive devono, dunque, essere rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui.

La violazione anche di uno solo di tali limiti implica l’illiceità della condotta del lavoratore e può, dunque, legittimare un licenziamento disciplinare.

Come evidenziato dalla giurisprudenza, i confini dell’esercizio del diritto di critica sopra esposti possono, dunque, ritenersi superati nel momento in cui si addebitino all’impresa o ai suoi rappresentanti condotte riprovevoli (anche integranti gli estremi di un reato) non tenute, ovvero si attribuiscano al datore qualità apertamente disonorevoli (anche se vere) utilizzando riferimenti volgariinfamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio (Cass. 1379/2019).

Il caso Marchionne

Un caso che ha suscitato particolare scalpore in materia di esercizio del diritto di critica dei dipendenti è sicuramente il caso Marchionne relativo a un gruppo di operai della Fiat che, nell’ambito di una protesta sindacale, avevano inscenato il finto suicidio dell’amministratore delegato.

In particolare, nell’area antistante il fabbricato aziendale e all’ingresso della sede regionale della Radiotelevisione italiana alcuni lavoratori avevano realizzato una macabra rappresentazione scenica del suicidio di Marchionne tramite impiccagione su un patibolo accerchiato da tute macchiate di rosso (a mo’ di sangue) e del successivo funerale con contestuale affissione di un manifesto ove si attribuivano all’amministratore le morti per suicidio di alcuni lavoratori e la “deportazione” di altri allo stabilimento di Nola.

Tale condotta aveva portato al licenziamento per giusta causa dei dipendenti coinvolti, licenziamento la cui legittimità è stata riconosciuta dalla Cassazione, non essendo le condotte descritte riconducibili a un legittimo esercizio del diritto di critica.

Come spiegato dalla Suprema Corte (Cass. 14527/2018), i fatti esorbitavano dai limiti della continenza formale – entro cui deve essere esercitato da parte dei lavoratori il diritto di critica e di satira – “attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana”. 

L’impiccagione del datore di lavoro, pubblicamente rappresentata e diffusa via internet e la rappresentazione del suo funerale, accompagnate dall’uso di frasi ingiuriose e false accuse rivolte al medesimo, costituiscono azioni contrarie ai doveri connessi all’inserimento dei lavoratori nell’organizzazione dell’impresa e idonee a ledere gli interessi morali del datore di lavoro.

Critica a mezzo social: i post su facebook

Le regole elaborate dalla giurisprudenza in materia di limiti al diritto di critica devono ritenersi valide a maggior ragione nelle ipotesi in cui la critica venga espressa sui social network.

Si pensi al caso della dipendente che aveva pubblicato sulla propria bacheca Facebook un post in cui esprimeva disprezzo per l’azienda (“mi sono rotta i ***** di questo posto di ***** e per la proprietà”). 

Come chiarito dalla Cassazione, la diffusione di un messaggio offensivo attraverso l’uso di una bacheca di un social network nei riguardi di persone facilmente individuabili integra un’ipotesi di diffamazione (aggravata, in quanto commessa “col mezzo della stampa”, come recita l’art. 595 c.p.) per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Da ciò consegue che è legittimo il licenziamento per giusta causa trattandosi di condotta idonea a concretizzare un grave inadempimento del dovere di fedeltà imposto al dipendente (Cass. 10280/2018). 

In tali casi non rileva assolutamente che la bacheca social sia impostata dall’utente come privata e non pubblica, in quanto i social sono da considerarsi luoghi pubblici: non serve privatizzare il profilo e renderlo visibile solo a una cerchia ristretta di utenti per riservarne i contenuti in quanto ciò che viene inserito in un profilo privato può essere comunque diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente (ad es., usando la funzione “condividi”, facendo circolare il post mediante uno screenshot, mostrando direttamente la schermata a terzi), rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari del post. Dunque, tutto ciò che viene pubblicato, se rilevante per il giudizio, può essere valutato dal giudice, a meno che tale materiale pubblicato non sia stato acquisito in maniera illecita, forzando, ad esempio, le password (Corte di appello di Torino 599/2017).

Critica a mezzo social: i messaggi privati su Fb/whatsapp

Diverso è il caso dei messaggi inviati nelle chat private o nei gruppi chiusi dei social (quali FbWhatsapp). Si tratta, infatti, di messaggi non inoltrati ad una moltitudine indistinta di persone, ma solo agli iscritti ad un determinato gruppo o chat: tali messaggi devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata che ex art. 15 Cost. è segreta e inviolabile.

L’esigenza di tutela della segretezza nelle comunicazioni, infatti, si impone anche riguardo ai messaggi di posta elettronica scambiati tramite mailing list riservata agli aderenti ad un determinato gruppo di persone e alle chat private con accesso condizionato al possesso di una password fornita a soggetti determinati. Tale segretezza preclude l’accesso di estranei al contenuto delle comunicazioni, la rivelazione e l’utilizzabilità del contenuto. Si segnala che l’ordinamento prevede anche specifiche ipotesi delittuose quali l’accesso abusivo a sistemi informatici, la violazione della corrispondenza e la rivelazione del contenuto della stessa (artt. 615-ter, 616 e 617 c.p.). 

La segretezza della corrispondenza e il divieto di divulgazione della medesima, dunque, sono incompatibili con la lesione della reputazione che, in quanto legata al contesto sociale di riferimento, presuppone e richiede la divulgazione a una moltitudine potenzialmente indeterminata di persone.

Non è, pertanto, diffamatorio l’utilizzo da parte del dipendente che riveste la carica di RSA di espressioni “colorite” nei confronti dell’amministratore delegato nell’ambito di una conversazione intervenuta in un gruppo limitato di dipendenti sindacalmente attivi su una chat di Facebook con accesso condizionato al possesso di una password. Tale comportamento, infatti, costituisce prima ancora che legittima espressione del diritto di critica sindacale, forma di comunicazione privata in cui i lavoratori possono dare libero sfogo alla propria insoddisfazione rispetto alla gestione aziendale (Cass. 21965/2018).

Sulla stessa linea si pone una recentissima sentenza del Tribunale di Firenze secondo cui non costituisce condotta diffamatoria l’utilizzo da parte del dipendente nel gruppo whatsapp “Amici di lavoro” di espressioni di contenuto offensivo, minatorio e razzista nei confronti di un superiore gerarchico. Anche in questo caso si tratta di una chat privata e ristretta a un numero chiuso di partecipanti con conseguente esclusione della possibilità che quanto detto in quella sede possa essere veicolato all’esterno (Tribunale di Firenze 16/10/2019).

Conclusioni

Il diritto di critica del dipendente costituisce un ambito particolarmente delicato in cui si realizza il necessario bilanciamento tra la libertà di manifestare il proprio pensiero e la tutela dell’onore e della reputazione dell’azienda. I criteri individuati dalla giurisprudenza in tema di cronaca giornalistica trovano ormai applicazione anche al rapporto di lavoro e impongono al lavoratore un comportamento controllato, che non sfoci nell’offesa gratuita e nella violenza verbale. Ciò a maggior ragione nell’era dei social network in cui ogni foto e ogni opinione pubblicata su una bacheca ha una potenzialità di diffusione esponenziale.