Amministratori e società: natura giuridica del rapporto e compatibilità con il lavoro subordinato

Last Updated on Dicembre 3, 2019

Di: Avv. Wanda Falco

Una questione particolarmente dibattuta in materia di amministratori di società è sicuramente quella relativa alla natura giuridica del rapporto che lega l’amministratore all’ente. Intorno a tale problematica si è costruito nel tempo un interessante dibattito giurisprudenziale che sembra aver trovato la propria conclusione in una recente pronunzia della Cassazione a SS.UU. del 2017. 

Indipendentemente da quale natura giuridica voglia riconoscersi a tale rapporto è comunque possibile, come da consolidata giurisprudenza, che l’amministratore cumuli su di sé oltre che la carica sociale anche un rapporto di lavoro subordinato, il più delle volte di tipo dirigenziale.

Nei paragrafi che seguono esamineremo entrambe le problematiche mettendo in evidenza come, diversamente da quanto possa sembrare, siano connesse e assolutamente non agli antipodi.

Il dibattito sulla natura giuridica del rapporto tra amministratore e società

Sulla natura giuridica del rapporto intercorrente tra l’amministratore e la società si sono avvicendate due teorie: 

  • la teoria contrattualistica, secondo cui l’amministratore e la società sono legati da un rapporto di tipo contrattuale;
  •  la teoria organica, secondo cui manca ogni dualismo tra amministratore e società, configurandosi un’immedesimazione dell’organo nella persona giuridica che rappresenta. 

La prima teoria apre la strada alla configurabilità di un rapporto di lavoro parasubordinato individuando nella prestazione dell’amministratore gli elementi della continuità, del coordinamento e del carattere prevalentemente personale. Ciò comporta che le relative controversie siano riconducibili all’art. 409, n. 3 c.p.c. e, dunque, alla competenza per materia del giudice del lavoro. Inoltre, secondo tale orientamento l’immedesimazione organica tra l’amministratore e la società rileva solo nei rapporti con i terzi, ma non anche nei rapporti interni in cui effettivamente sussiste una relazione obbligatoria tra soggetti distinti tra loro (Cass. S.U. 10680/1994; Cass. 4261/2009).

La seconda teoria, invece, esclude l’esistenza di un contratto facendo leva sull’impossibilità di distinguere l’amministratore dalla società. Questi, infatti, non si limita a fornire una prestazione lavorativa a vantaggio dell’ente in quanto rappresenta la persona fisica con cui si identifica l’organo amministrativo. In altre parole, il fatto che l’amministratore sia l’organo esecutivo della società che garantisce il corretto funzionamento e il perseguimento del suo scopo, comporta che egli non possa essere considerato come un soggetto terzo rispetto alla società (Cass. 22046/2014; Cass. 2759/2016). 

Le Sezioni Unite 2017: il definitivo superamento della teoria della parasubordinazione

Il contrasto giurisprudenziale sul punto, cui aveva provato a dare una soluzione la sentenza della Cassazione a SS.UU. del 1994 sopra citata, è proseguito fino ad arrivare alla recente pronuncia della Suprema Corte, sempre a SS.UU. (1545/2017).

Ripercorrendo le varie tappe del contrasto giurisprudenziale in materia, i giudici di piazza Cavour accolgono la tesi dell’immedesimazione organica e, dunque, della natura societaria del rapporto tra amministratore e società. 

La Corte, infatti, afferma che l’amministratore è il vero egemone dell’ente sociale, a lui spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa con il solo limite di quegli atti che non rientrano nell’oggetto sociale (art. 2380 bis c.c.); il suo potere di rappresentanza è generale e concerne anche gli atti estranei all’oggetto sociale (art. 2384, comma l, c.c.). Per quanto riguarda, poi, il rapporto tra assemblea e amministratore, non è possibile parlare di un coordinamento imposto dalla prima al secondo. Ciò emerge dall’art. 2380 bis c.c. che attribuisce la gestione dell’impresa in via esclusiva all’amministratore e dall’art. 2364, n. 5 c.c., per il quale l’assemblea ordinaria delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori. Da ciò si deduce che la competenza gestoria dell’assemblea ha carattere delimitato e specifico: essa sussiste solo per gli atti espressamente attribuiti dalla legge; la competenza degli amministratori, invece, ha carattere generale e sussiste per tutti gli atti d’impresa che non siano riservati all’assemblea. La competenza degli amministratori, dunque, lascia il campo a quella dell’assemblea solo quando si tratti di iniziative che comportino una sostanziale modifica, diretta o indiretta, dell’oggetto sociale.

Accanto a tali argomentazioni le Sezioni Unite segnalano che l’art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. 168/2003, ha attribuito al tribunale delle imprese la competenza nelle controversie “relative a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”. Tra i “rapporti societari” deve necessariamente rientrare il rapporto tra società e amministratori che è funzionale alla vita della società e consente alla stessa di agire. Infatti, i compiti che la società affida al suo amministratore riguardano la gestione stessa dell’impresa, costituita da un insieme variegato di atti materiali, negozi giuridici e operazioni complesse.

Dall’affermazione della natura societaria del rapporto tra amministratore e società discendono alcune conseguenze. In particolare la pronunzia delle SS.UU. in esame ha fatto discendere la pignorabilità dei compensi degli amministratori senza i limiti previsti dall’art. 545 c.p.c. (che, in materia di crediti impignorabili, stabilisce che “le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato; tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni ed in eguale misura per ogni altro credito”).

Analogamente altre pronunzie, alla luce della specialità del rapporto dell’amministratore, hanno dedotto l’inapplicabilità dell’art. 36 Cost. e la legittimità della previsione statutaria della gratuità delle funzioni dell’amministratore (Cass. 7961/2009; Cass. 285/2019).

Sulla compatibilità tra la carica di amministratore e il rapporto di lavoro subordinato

È indispensabile precisare che quanto finora affermato concerne esclusivamente la figura dell’amministratore societario nelle sue funzioni tipiche di gestione e rappresentanza dell’ente, ossia come soggetto che, immedesimandosi nella società, le consente di agire e raggiungere i propri fini imprenditoriali. Tale rapporto organico interessa soltanto i terzi per i quali gli atti giuridici compiuti dall’organo vengono direttamente imputati alla società con la conseguenza che, sempre verso i terzi, assume rilevanza solo la persona giuridica rappresentata, non anche la persona fisica: nulla esclude, dunque, che nei rapporti interni sussistano obbligazioni tra l’amministratore e l’ente (Cass. 18476/2014; Cass. SS.UU. 1545/2017).

Da tale premessa discende la possibilità che si instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assume le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato (il più delle volte accade che l’amministratore della società sia anche dirigente della medesima). 

Chiaramente, la giurisprudenza ha sottolineato che chi intende farlo valere ha l’onere di provare in modo certo l’assoggettamento – nonostante le suddette cariche sociali – al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso e, inevitabilmente, l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita (Cass. 18414/2013; Cass. 14023/2015; Cass. 22689/2018).

In altre parole, ai fini della compatibilità suddetta è necessario verificare se il lavoro svolto possa comunque essere inquadrato all’interno della specifica organizzazione aziendale e se l’amministratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata (quando il lavoratore sia un dirigente), alle direttive, agli ordini e ai controlli dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso, nonché al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto organizzativo aziendale. Ciò, in genere, è possibile se il soggetto svolge, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la societàovvero svolge attività che esulino e che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite (Cass. 6699/2016).

Si segnalano, a titolo esemplificativo, i seguenti casi:

  • il caso di un soggetto che rivestiva sia la carica di Presidente del Consiglio di Gestione che quella di Amministratore Delegato e che rivendicava la qualifica di dirigente apicale. La Corte ha rigettato il ricorso per carenza di prova dell’eterodirezione considerato che il direttore generale della società rispondeva all’amministratore delegato e che quest’ultimo, a sua volta, rispondeva al Consiglio di Gestione del quale l’amministratore era anche presidente; tali circostanze rendevano difficilmente ipotizzabile l’eterodirezione mancando un soggetto diverso al quale far risalire le eventuali direttive (Cass. 22689/2018);
  • il caso di un’amministratrice che svolgeva anche mansioni di commessa: i giudici hanno confermato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato attesa l’osservanza di un orario di lavoro fisso che coincideva con quello di apertura al pubblico del negozio e l’ottemperanza alle istruzioni del consiglio di amministrazione (Cass. 6699/2016);
  • il caso di un amministratore di S.p.A. che rivendicava anche la qualifica di dirigente, qualifica esclusa dalla circostanza che i compiti asseritamente riconducibili alla figura del dirigente, quali la stipulazione di contratti, erano in realtà perfettamente imputabili alla diversa funzione di componente del Consiglio di Amministrazione (Cass. 20600/2013);
  • il caso di un amministratore che rivendicava il rapporto di lavoro dirigenziale, in realtà insussistente in quanto era emerso che questi concordava con il responsabile della società le linee generali dell’attività da svolgere, non chiedeva l’autorizzazione per assentarsi, svolgeva gli incarichi prevalentemente fuori sede e al di fuori dei controlli diretti e continui del datore (Cass. 1424/2012).

Alcuni casi particolari: l’amministratore unico e l’amministratore delegato.

Un caso diverso da quelli finora esaminati è quello dell’amministratore unico della società che è detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale, come anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina. In tal caso, non potendo ricorrere l’effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri (requisito tipico della subordinazione) è esclusa la compatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società e la carica di amministratore unico della medesima (Cass. 19050/2015; Cass. 6852/2015).

Per quanto concerne l’amministratore delegato (che non rivesta anche altre cariche sociali), invece, si segnala che secondo un recente messaggio dell’Inps (Messaggio Inps del 19/09/2019, n. 3359) la portata della delega conferita dal consiglio di amministrazione a tale organo è rilevante ai fini dell’ammissibilità o meno della coesistenza della carica con quella di lavoratore dipendente. 

Nell’ipotesi in cui l’amministratore sia munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del consiglio di amministrazione si ritiene, pertanto, che sia esclusa la compatibilità tra la carica sociale e un valido rapporto di lavoro subordinato. Diversamente, l’attribuzione da parte del consiglio di amministrazione del solo potere di rappresentanza ovvero di specifiche e limitate deleghe all’amministratore non è ostativo, in linea generale, all’instaurazione di genuini rapporti di lavoro subordinato. 

Conclusioni

La corretta qualificazione della natura giuridica del rapporto tra amministratore e società ha significativi risvolti in termini di disciplina da applicare. Qualificare il rapporto come “societario”, infatti, consente di prevedere la gratuità della carica all’interno dello statuto nonché comporta che i compensi eventualmente pattuiti non siano qualificabili come redditi da lavoro e siano, quindi, pignorabili senza limiti. Tale natura giuridica societaria, tuttavia, non osta alla cumulabilità della carica sociale e del rapporto di lavoro subordinato purché sussista una condizione indefettibile: che sia provata nel caso concreto l’effettiva esistenza dell’eterodirezione.

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