L’uso del velo islamico: quando la libertà di religione incontra il limite delle esigenze dell’impresa?

Last Updated on Dicembre 12, 2019

Di: Avv. Wanda Falco

È decisamente attuale e controversa la problematica relativa alle discriminazioni per religione in ambito lavorativo e ai limiti che la libertà religiosa può trovare nelle esigenze aziendali. 

Premessa necessaria alla comprensione della portata del problema è la nozione di discriminazioni, rinvenibile nel D.lgs. 216/2003 che ha recepito la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 

Per discriminazioni dirette si intendono tutti quei provvedimenti, atti o comportamenti diretti a trattare meno favorevolmente un soggetto appartenente, come nel caso che ci occupa, a un determinato credo rispetto agli appartenenti ad altra religione.

Per discriminazioni indirette, invece, si intendono tutti quei comportamenti, atti o provvedimenti apparentemente neutri, ma che, nel caso di specie, producono come effetto quello di mettere coloro che appartengono ad un determinato credo in una posizione di svantaggio rispetto ad altri. 

Alla luce di tali definizioni è possibile apprezzare meglio le pronunzie in materia divieto aziendale di indossare il velo islamico dalle quali si evince il necessario bilanciamento tra la libertà di religione e il divieto di discriminazioni e la tutela delle esigenze aziendali

Vediamo, dunque, nel dettaglio alcuni casi emblematici.

Il divieto di indossare il velo islamico: due casi a confronto

Caso I: divieto aziendale per offrire alla clientela un’immagine neutrale

Un caso che ha offerto interessanti spunti di riflessione è sicuramente quello relativo alla vicenda di una dipendente di fede musulmana che lavorava per una società belga in qualità di receptionist e che indossava abitualmente il velo islamico. Dopo aver violato sistematicamente il regolamento aziendale che vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose, la società procedeva al licenziamento. 

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-157/15) è stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilità che tale comportamento datoriale costituisca una discriminazione fondata sulla religione e sulle convinzioni personali del dipendente.

Come evidenziato dai giudici di Lussemburgo, il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che nega ai dipendenti la possibilità di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva 2000/78/CE. Infatti, nel caso di specie, la norma interna vieta di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose e riguarda, quindi, qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna. La norma in questione, quindi, tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, una neutralità di abbigliamento incompatibile con l’uso del velo islamico e con qualsiasi altro segno esteriore da cui si possano desumere le convinzioni personali del lavoratore. 

Scongiurata la discriminazione diretta, la Corte spiega, poi, che tale divieto può comunque costituire una discriminazione indiretta qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. 

Tuttavia, tale discriminazione indiretta può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima (ex art. 2, co. 2, lett. della direttiva 2000/78/CE), come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità nei rapporti con i clienti, purché i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Caso II: divieto aziendale per assecondare un cliente 

Diverso è il caso del licenziamento di una donna musulmana, che lavorava come ingegnere per una società francese, per aver rifiutato di togliere il velo a contatto con i clienti dell’azienda nonostante la richiesta esplicita da parte della direzione aziendale. Tale richiesta era stata sollecitata dalla segnalazione di un cliente infastidito dall’uso di tale indumento.

La Corte di Giustizia (C-188/15) ha richiamato i medesimi principi sanciti nella pronuncia precedente e ha evidenziato che, in assenza di una norma aziendale che vieti a tutti i dipendenti di esibire qualunque segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, deve ritenersi che il comportamento datoriale in esame costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione; tale discriminazione è esclusa solo dimostrando che il comportamento richiesto al dipendente costituisca “un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, come previsto dalla direttiva cit. all’art. 4, comma 1. Il diritto UE, infatti, nell’ipotesi di un trattamento differenziato in ragione della religione o delle convinzioni personali, lascia agli stati membri la facoltà di riconoscere che esso non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, la caratteristica richiesta sia un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. 

Tale requisito deve, dunque, essere oggettivamente richiesto dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata; tale attività non può includere considerazioni soggettive, quali la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente che non voglia essere assistito da una dipendente che indossa il velo islamico. 

Dunque, è evidente la differenza tra i due casi: licenziare una lavoratrice perché porta il velo, sgradito a un cliente, è un comportamento diretto a trattare meno favorevolmente un soggetto in quanto appartenente a una determinata religione; licenziare una lavoratrice perché porta il velo, in violazione di un regolamento aziendale che vieta tutte le manifestazioni esteriori di appartenenza politica, filosofica o religiosa e che, dunque, si applica a tutti i dipendenti, non è un comportamento direttamente discriminatorio; potrebbe essere, però, indirettamente discriminatorio a meno che non sia giustificato da una finalità legittima, quale può essere una politica aziendale di neutralità nei confronti della clientela.

Un caso italiano: l’aspirante hostess scartata perché indossava il chador

Anche in Italia la problematica del velo islamico è stata affrontata in un caso molto interessante che ha visto protagonista una ragazza di cittadinanza italiana e religione musulmana che aveva risposto a un’offerta di lavoro di una società incaricata di preselezionare delle hostess per un’attività di volantinaggio in una fiera di scarpe. La sua candidatura era stata respinta per la mancata disponibilità a togliere il velo durante l’eventuale prestazione lavorativa. 

L’agenzia incaricata della preselezione aveva ricevuto dalla società committente l’incarico di procurare ragazze che sapessero parlare inglese, di bella presenza, attive e operative, “preferibilmente con capelli lunghi, sciolti e vaporosi”. Come evidenziato dai giudici di appello, nella richiesta della società i requisiti indispensabili erano, dunque, la bella presenza e la lingua inglese, mentre i capelli lunghi, sciolti e vaporosi costituivano elementi secondari, come desumibile dall’uso dell’avverbio “preferibilmente”. 

In sostanza la ragazza era stata esclusa dalla selezione per la mancanza di un requisito assolutamente non determinante ed essenziale per lo svolgimento della prestazione richiesta (hostess ad una fiera di scarpe), tant’è che non era mai stato indicato come tale dalla committente. Inevitabilmente l’esclusione dalla selezione fondata sulla mancanza di un requisito non essenziale, mancanza dovuta all’appartenenza della lavoratrice alla religione islamica, costituisce per i giudici della Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 579/2016) una discriminazione diretta fondata sulla religione.

Conclusioni 

Dalle sentenze esaminate emerge come vada perseguito l’obiettivo di equilibrare la libertà religiosa e la libertà di impresa: nell’esercizio della propria libertà d’iniziativa economicail datore di lavoro, sia in fase di selezione che nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, può imporre un codice di abbigliamento che garantisca, ad esempio, a tutti i suoi dipendenti e anche ai suoi clienti un clima di neutralità.

Tuttavia, tale codice in tanto è legittimo e non discriminatorio in quanto trovi applicazione a tutti i lavoratori indistintamente e, laddove possa risultare comunque discriminatorio (direttamente o indirettamente), bisogna dimostrare che la sua osservanza costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ovvero serva al perseguimento di una finalità legittima.

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