Trasferimento di ramo d’azienda: occhio ad alcune questioni insidiose

Last Updated on Settembre 10, 2019

Di:  Avv. Wanda Falco

Si parla di trasferimento d’azienda in presenza di un mutamento della titolarità dell’azienda a seguito di operazioni di cessione, fusione, affitto e costituzione o cessione di usufrutto. Quando il trasferimento ha per oggetto solo una parte del complesso aziendale si parla, invece, di trasferimento di ramo d’azienda.

La disciplina del trasferimento d’azienda e di ramo è contenuta nell’art. 2112 c.c. e nell’art. 47 della L. 428/1990, il cui scopo, come vedremo, è di tutelare il diritto dei lavoratori ceduti a mantenere il proprio rapporto di lavoro presso il cessionario e di evitare che il trasferimento comporti un peggioramento del trattamento economico e normativo. A ciò si aggiunga anche l’esigenza di evitare il rischio che le parti imprenditoriali creino ad hoc false strutture produttive soltanto per disfarsi di un determinato gruppo di lavoratori. Tale esigenza è palesata proprio dalla nozione di trasferimento d’azienda e di ramo prevista dal comma 5 dell’art. 2112 c.c. e che è stata oggetto di molteplici pronunce di legittimità volte proprio a chiarire che cosa debba intendersi per azienda o ramo ceduti anche alla luce dell’ordinamento comunitario. 

Nei paragrafi seguenti, pertanto, esamineremo le tutele che l’ordinamento garantisce ai dipendenti del ramo ceduto nonché ci soffermeremo sulle problematiche inerenti la nozione di ramo d’azienda e la distinzione di tale istituto dalla mera cessione dei rapporti di lavoro.

Trasferimento d’azienda e di ramo: le tutele per i dipendenti ceduti

La prima problematica che si prospetta in caso di trasferimento di ramo d’azienda consiste nell’individuare le tutele garantite ai dipendenti del ramo ceduto. A tal proposito, il legislatore all’art. 2112 c.c. precisa che il trasferimento d’azienda non costituisce motivo di licenziamento e prevede che il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell’azienda e “il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”. A ciò si aggiunga che il cedente e il cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento e che il nuovo titolare deve applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti alla data del trasferimento fino alla loro scadenza. Non solo. L’art. 47 della L. 428/1990 prevede ulteriori obblighi a carico del cedente e del cessionario coinvolti nell’operazione: in particolare, se il trasferimento si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per cedente e cessionario avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell’atto di trasferimento, le rappresentanze sindacali. In tale comunicazione bisogna indicare i motivi della cessione del ramo d’azienda, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori, le eventuali misure da adottare nei confronti degli stessi e la data o proposta di una data per la cessione. Le organizzazioni sindacali a loro volta entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione possono chiedere che cedente e cessionario avviino un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti: il mancato rispetto degli obblighi di informazione e di esame congiunto da parte di cedente e cessionario costituisce condotta antisindacale.

La nozione di ramo d’azienda: quando il trasferimento è genuino?

Tra le tematiche più discusse in materia di trasferimento di ramo d’azienda si segnala quella relativa alla corretta individuazione del ramo ceduto. In sostanza, si tratta di capire quali caratteristiche debba avere un ramo affinché la sua cessione sia riconducibile alla disciplina del trasferimento ex art. 2112 c.c. Tale norma, infatti, prevede che per trasferimento d’azienda si intende “qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. Le disposizioni del presente articolo si applicano al trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.

Quest’ultimo periodo è stato così modificato dall’art. 32 del D.Lgs. 276/2003 che ha soppresso l’inciso “preesistente come tale al trasferimento” a suo tempo introdotto dal D.Lgs. 18/2001. Tuttavia, tale modifica, come vedremo tra poco, non è stata ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità indice della volontà del legislatore nazionale di eliminare il requisito della preesistenza dell’autonomia dell’attività economica organizzata. Infatti, l’intervento normativo citato si inserisce nell’ambito dell’adeguamento della normativa nazionale a quella comunitaria: secondo la Direttiva 2001/23/CE “è considerato come trasferimento quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. Come evidenziato dalla CGUE con  la sentenza C-458/12 (Caso Amatori) , la Direttiva citata usa il termine “conservi”, circostanza che induce a ritenere che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento. 

Pertanto, la giurisprudenza di legittimità, in modo conforme alle indicazioni del giudice comunitario appena esposte, ha chiarito che, anche a seguito della modifica all’art 2112 c.c. per effetto dell’art. 32 del D.Lgs. 276/2003, per ramo d’azienda deve intendersi “ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, e quindi, costituisca, comunque, una preesistente entità produttiva, funzionalmente autonoma, potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste. Ciò comporta che è preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità”.

Dunque, come precisato in numerose pronunce di legittimità, elemento costitutivo del trasferimento di ramo è l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, “già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali e organizzativi e, quindi, di svolgere, autonomamente dal cedente senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione”. In altre parole, il ramo deve essere una preesistente realtà produttiva autonoma e non una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo. Ciò comporta che per stabilire se nel caso di specie si possa parlare di ramo d’azienda o meno non bisogna basarsi sull’organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione (eventualmente grazie alle integrazioni determinate da successivi contratti di appalto), ma sull’organizzazione consentita già dal preesistente complesso produttivo costituito dal ramo ceduto.

I requisiti di preesistenza e di autonomia funzionale del ramo, tuttavia, consentono di ritenere configurabile il trasferimento anche nel caso in cui sia ceduto solo un gruppo di lavoratori e non anche i beni materiali. Chiaramente è necessario che tale gruppo sia professionalmente coeso e che i suoi componenti abbiano legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico know how (es. utilizzo di copyright, brevetti), in modo da poter essere individuati come un’unità funzionale in grado di produrre beni o servizi e non come mera sommatoria di dipendenti. In tale ultimo caso, infatti, non si può parlare di trasferimento d’azienda o di ramo, ma di mera cessione di rapporti di lavoro che ai sensi dell’art. 1406 c.c. richiede il consenso del contraente ceduto.

Dunque, come spesso ribadito dalla giurisprudenza, in caso di trasferimento del ramo d’azienda, l’autonomia del ramo può sussistere anche in presenza di una struttura dematerializzata o leggera costituita in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo, anche potenzialmente, allo svolgimento di un’attività economica. 

La nozione “smaterializzata”di azienda consente, quindi, di configurare una legittima ipotesi di trasferimento ex art. 2112 c.c. anche in casi in cui non occorrano particolari mezzi patrimoniali per l’esercizio dell’attività economica; è necessario, tuttavia, che si sia in presenza di un complesso organizzato di persone, dotate di particolari competenze e stabilmente coordinate ed organizzate tra loro, così da rendere le loro attività interagenti e idonee a tradursi in beni e servizi ben individuabili: in sostanza, l’oggetto della cessione deve essere caratterizzato dall’organizzazione del capitale umano e dal valore dei beni immateriali ceduti.

Alcuni casi pratici al vaglio della Cassazione

Per poter meglio comprendere le problematiche sorte in tema di nozione di ramo d’azienda può essere utile esaminare qualche recente caso pratico oggetto di pronuncia di legittimità.

Caso 1

Il primo caso riguarda un trasferimento attivato da una nota azienda specializzata nelle tecnologie mediche che aveva ceduto un singolo stabilimento preposto alla produzione di componenti e dispositivi per la circolazione extracorporea del sangue. 

I giudici di merito avevano ritenuto illegittimo il trasferimento di ramo alla luce del fatto che il ramo ceduto, pur avendo una sua autonomia, non avesse mantenuto al momento del trasferimento la medesima struttura materiale né l’organizzazione di beni e personale preesistenti; la cessione, infatti, aveva avuto ad oggetto solo arredi e piccoli macchinari e dalla stessa erano rimasti esclusi una parte non irrilevante delle attrezzature, i contratti in corso con i fornitori, i diritti di proprietà industriale, intellettuale, le licenze, i marchi e i brevetti; inoltre, l’acquirente si era obbligato nel contratto a non occuparsi della produzione di macchine, accessori e dispositivi per dialisi, attività costituente proprio il core business del ramo ceduto.

La pronuncia di merito ha trovato conferma in Cassazione (v. Cass. sez. lav. 2280/2018) che ha chiaramente ribadito il principio di diritto esposto nel paragrafo precedente evidenziando che il ramo ceduto deve avere una sua identità e autonomia funzionale che sono inevitabilmente escluse nel momento in cui il ramo viene privato a monte del suo core business.

Caso 2

Il secondo caso che ci si propone di esaminare riguarda una società telefonica che aveva ceduto a un’impresa esterna il ramo addetto alla fornitura dei servizi di back office (reclami, variazioni, subentri), alla gestione dei rapporti con i clienti e alla gestione del credito. 

I giudici di merito avevano ritenuto insussistente il ramo d’azienda ponendo attenzione sulla circostanza che era stato ceduto solo il personale addetto alle divisioni, insieme ai sistemi operativi e ai beni mobili utilizzati per l’attività lavorativa (scrivanie, computer), lasciando fuori le infrastrutture tecnologiche necessarie allo svolgimento del servizio (in particolare, i programmi che consentono l’accesso al database clienti). In sostanza, la mancata cessione dei programmi necessari all’erogazione del servizio aveva privato il ramo di azienda di quella capacità di agire in autonomia indispensabile ai fini della configurazione del ramo.

Anche in questo caso la sentenza di merito è stata confermata in Cassazione (v. Cass. sez. lav. 17366/2016) che ha ribadito che l’autonomia funzionale e la preesistenza del ramo, quali requisiti indefettibili di un trasferimento d’azienda o di ramo genuini, sussistono se il ramo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, sia in grado di perseguire lo scopo produttivo da solo, senza integrazioni consistenti e significative da parte del cessionario. Tali integrazioni, invece, erano assolutamente necessarie nel caso di specie. 

La non necessaria prognosi di continuazione dell’attività produttiva

Altra questione di particolare rilievo in materia di trasferimento di ramo concerne la sussistenza o meno in capo al cedente dell’onere di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario. 

La giurisprudenza sembra concorde nel ritenere che non sussiste alcun divieto di cessione in favore di un soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro. In altre parole, non esiste un divieto di cessione nel caso in cui sia prospettata la mancanza di solidità economica dell’azienda cessionaria che, ad esempio, fallisce di lì a poco.

Infatti, il legislatore ha predisposto una serie di cautele (che vanno dalla previsione della responsabilità solidale del cedente con il cessionario, in relazione ai crediti maturati dai dipendenti, all’intervento delle organizzazioni sindacali), ma non pone alcun limite ulteriore nel rispetto dell’articolo 41 Cost. Nessun altro limite, dunque, neppure implicito, è stato posto alla libertà dell’imprenditore di dismettere l’azienda. Da ciò consegue che la validità della cessione non è condizionata alla prognosi della continuazione dell’attività produttiva, e, di conseguenza, all’onere del cedente di verificare le capacità e potenzialità imprenditoriali del cessionario. Va, pertanto, respinta la tesi della nullità di una cessione che, lungi dal tendere alla conservazione dell’azienda, si realizzi in condizioni e con modalità tali da renderne probabile la dissoluzione.

Trasferimento illegittimo: quali conseguenze per il cedente che non riammette il dipendente?

Altra questione controversa, su cui di recente si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, concerne la sussistenza o meno di un obbligo retributivo in capo al cedente nel caso in cui questi abbia rifiutato di riammettere in servizio il dipendente illegittimamente ceduto il quale abbia, pertanto, continuato a lavorare alle dipendenze del cessionario. 

Si tratta del caso in cui il trasferimento di ramo d’azienda sia stato dichiarato illegittimo dal giudice e, conseguentemente, il lavoratore (illegittimamente ceduto) abbia messo la propria prestazione lavorativa a disposizione del cedente che la rifiuti senza motivo: cosa accade se il lavoratore ceduto continua a lavorare presso il cessionario? Le retribuzioni corrisposte dal cessionario producono effetto estintivo dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente?

Nel tempo sono stati registrati due diversi orientamenti di seguito riportati.

I orientamento: obbligo risarcitorio del cedente

Secondo il primo orientamento, ormai superato, anche nell’ipotesi di dichiarata nullità della cessione di ramo d’azienda, l’omesso ripristino della funzionalità del rapporto da parte del cedente, a fronte di una tempestiva messa a disposizione delle energie lavorative da parte del lavoratore, rileva solo sul piano risarcitorio. Da ciò consegue che il cedente può eccepire la detrazione dell’aliunde perceptum che il lavoratore ceduto abbia percepito continuando a lavorare presso la società cessionaria. In sostanza, l’obbligazione gravante sulla società cedente, successivamente alla sentenza con la quale è stata dichiarata illegittima la cessione d’azienda o di ramo, è di natura risarcitoria e non retributiva. Secondo Cass., sez. lav. 16694/2018, l’orientamento in questione evidenzia non soltanto la responsabilità del datore di lavoro che si rifiuti o comunque non ottemperi al ripristino del rapporto in caso di cessione di azienda dichiarata illegittima, ma considera anche l’ipotesi in cui la prestazione di lavoro sia comunque proseguita con l’azienda cessionaria. Tale ultimo evento non rileva rispetto alla permanenza dell’obbligo datoriale conseguente alla pronuncia di illegittimità della cessione, ma solo con riguardo alla entità del danno risarcibile e alla detraibilità del percepito presso il cessionario. 

II orientamento: obbligo retributivo del cedente

Il secondo orientamento ritiene che una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. In altre parole, dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, vi è l’obbligo dell’impresa cedente, che non abbia utilizzato la prestazione offerta dal dipendente, di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno (si veda da ultimo Cass. sez. lav. 21158/2019). 

Tale secondo orientamento è stato definitivamente consolidato da una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite che ha qualificato come obbligo retributivo quello del datore di lavoro che non riammette in azienda il lavoratore dopo l’accertamento dell’illecita interposizione di manodopera, qualificazione quindi riferibile anche al caso di illegittimo trasferimento di azienda o di ramo (si veda Cass. S.U. 2990/18).

Il mutato orientamento giurisprudenziale appena descritto ha trovato conferma nella sentenza della  Corte Costituzionale 29/2019 Questa ha ribadito che a seguito di una pronuncia giudiziale di nullità del trasferimento d’azienda o di ramo, qualora il cedente rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta dal dipendente, è tenuto comunque al versamento della retribuzione, anche se questi continui a lavorare per il cessionario. Infatti, in tali casi “una prospettiva costituzionalmente orientata della questione impone di rimeditare la regola della corrispettività che permea il contratto di lavoro giacché una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore”.

Conclusioni

Come emerge dalle problematiche segnalate, la materia del trasferimento di ramo d’azienda costituisce una sorta di campo minato per le imprese, stanti gli orientamenti giurisprudenziali così rigorosi registrati negli ultimi anni. Occorre, pertanto, fare molta attenzione all’individuazione del complesso di beni da cedere tenendo conto che solo un soggetto giuridico effettivamente autonomo dal cedente fin dal momento della cessione può costituire un ramo d’azienda genuino. In ambito giuslavoristico, infatti, il concetto di azienda ha assunto connotazioni particolari non proprio coincidenti con quelli tipici di altri ambiti quali, ad esempio, il diritto commerciale. 

Restano, fortunatamente, dei margini di tutela della libertà di iniziativa economica privata e d’impresa ex art. 41 Cost. stante il consolidato orientamento giurisprudenziale che non impone al cedente di assicurarsi delle capacità imprenditoriali del cessionario e di fare una prognosi della prosecuzione dell’attività lavorativa ceduta.  

 

 

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